mercoledì 3 ottobre 2007

All'inseguimento del Santo Graal di Valencia

Avventura esoterica sulle tracce della più sacra e inafferrabile reliquia della cristianità. Un tesoro ben nascosto nelle valli più impervie dell'Aragona
A cura di Marilena Malinverni


Duemila anni dietro una scodella. Duemila anni che cavalcano. Duemila anni che lo cercano. Da Perceval a Indiana Jones non si è mai perso il gusto della caccia spietata alla più sacra e inafferrabile delle reliquie cristiane. Tutto ha inizio con l'Ultima Cena, quando Cristo spezza il pane e fa girare il boccale del vino benedetto tra i suoi dodici commensali; quando Giuseppe d'Arimatea raccoglie il sangue del costato del Nazareno in una coppa.
Due recipienti che le leggende gnostiche fondono in un solo calice: il Santo Graal. Che Chretién de Troyes e gli altri romanzieri del ciclo arturiano trasformano in mito e oggetto taumaturgico: basta contemplarlo per essere guariti da tutti i mali, liberati da tutte le angosce, sfamati e dissetati. Il che, coi tempi che corrono, è sempre meglio di niente. Perciò non è mai cessata la ricerca.Tutti lo vogliono e molti, dall'Etiopia a Manhattan, sostengono di possederlo. Ma lo tengono nascosto. Per avere sfruttato i suoi poteri magici, i Templari vennero spazzati via da Filippo IV e da papa Clemente V, nel 1312. Con il tempo, la giostra della caccia al sacro vaso è diventata uno sport di massa fatto di avvistamenti, passaggi di mano, occultamenti, linguaggi esoterici. E ora "todos caballeros de la Tabla Redonda": lo spagnolo è di rigore dato che una certa porzione di penisola iberica si proclama custode unica del supremo feticcio e teatro delle sue peripezie. Ultimi discendenti di una plurisecolare schiera di sorveglianti, oggi a Valencia gli fanno buona guardia i pensionati della Confradia del Santo Caliz, armati di gonfalone e solide convinzioni. Per loro, il Graal legittimo è quello esposto nella cattedrale cittadina, lo stesso da cui ha bevuto nel 1982 papa Giovanni Paolo II durante l'eucarestia, facendo attenzione a non avvicinare le labbra alla piccola sbrecciatura sull'orlo: nel XVIII secolo scivolò dalle mani di un canonico mentre lo portava in processione per le vie della città. Era da 1734 anni che non veniva toccato dalle mani di un papa, da quel 258 in cui Sisto II lo affidò al diacono Lorenzo insieme con altri tesori, perché li mettesse in salvo dal furore persecutorio dell'imperatore Valeriano. Il prezioso oggetto che balugina in una nicchia della buia cappella gotica si compone di tre parti distinte: il piedistallo e i manici sono del tardo Medievo, mentre la coppa, lavorata in una varietà di calcedonio o agata detta cornalina, di fattura romana o ellenistica, risale alla fine dell'età precristiana. I conti tornano, gli archeologi non trovano nulla da obiettare su origini e datazione. I confratelli non sono tanto sprovveduti da credere che sia sempre stato lì. "È qui dal 1437, quando Alfonso il Magnanimo lo donò al capitolo della cattedrale", spiega Ignacio Carrau, presidente del devoto sodalizio."Nei secoli precedenti era stato nascosto tra le montagne per sottrarlo ai saraceni, poi ad Alicante e Palma de Mallorca". È scampato alle razzie napoleoniche nel 1809 e agli appetiti dei comunisti durante la guerra civile. Per dieci pesetas, in un bugigattolo della cattedrale, vendono una stampa del calice con la sintesi delle sue più recenti traversie: "Salvato dall'irruzione marxista nel 1936, traslato a Carlet nel 1937, restituito alla cattedrale nel 1939". Ma è tra i monti, non menzionati dal confratello per spirito campanilistico, che restano le tracce più evidenti e meno ideologiche del suo passaggio. Nella scoscesa Aragona, terra ostica di pievi arroccate, monasteri perduti, greggi bucoliche e sterminati silenzi. Nella parte più montuosa della regione, che dalla valle dell'Ebro si arrampica fin sui Pirenei, abbondano i ricordi e i culti dei protomartiri e delle vergini decollate. Per le impervie balze aragonesi transitavano i pellegrini diretti a Santiago de Compostela, lesti a scorgere ovunque tracce di prodigi. Un paesaggio fumigante di nebbie, che Dio deve aver fatto d'autunno, in un momento di malinconia. Huesca, la romana Osca, e i suoi dintorni sono stati per secoli ricettacolo della coppa che scottava come una brace sotto la cenere. Protetta da un'omertà qualche volta pagata con la vita. Il 25 giugno, la ragazza più bella del paese sfila in corteo per la vie di Huesca con indosso vesti damascate e gioielli: interpreta la parte di Orosia, la vergine che preferì il martirio allo stupro musulmano. Il cranio della santa, placcato d'argento dorato, dipinto e sormontato da una corona alta come un panettone, sfolgora in una teca di vetro della chiesa di Yebra de Basa. E tra il 9 e il 15 agosto, con contorno di processioni e corride, tutti a festeggiare Lorenzo, il salvatore del Graal. Il diacono, dopo aver preso il sacro calice in consegna dal pontefice, lo aveva affidato a un soldato romano delle sue parti: in campagna avrebbe dato meno nell'occhio. E così la reliquia peregrinò tra Huesca, Jaca, Yebra de Basa, San Pedro de Siresa... Di tutti i ripari, il più sicuro fu certo il monastero di San Juan de la Peña, cenobio ficcato nelle fauci di un faraglione roccioso del monte Pano. Una sorta di Lhasa iberica con vista sulle cime più alte dei Pirenei, dove gli sciatori della domenica hanno ormai soppiantato i pii romei. Sorto nel IX secolo, San Juan è stato il primo convento a introdurre la messa secondo la liturgia romana in Spagna; nel suo pantheon sono sepolti i primi re aragonesi. A Huesca, nella chiesa di San Pedro el Viejo, Maria e suo figlio José Maria, labbra tirate e aria guardinga, hanno la faccia immusonita di quelli che considerano un fatto personale la rimozione del Calice dalla "loro" iglesia. Poi si rilassano, illustrano allo straniero il romanico maturo della chiesa e gli fanno fare il giro dell'ombroso chiostro. Di segni inquietanti è disseminato tutto questo territorio. A San Juan de la Peña, un vecchietto ti fa notare la somiglianza dei suoi occhi grandi e gonfi con quelli del Cristo e degli apostoli graffiti sui capitelli delle colonne. A Santa Cruz de la Seros, i camini delle case continuano a rifinirli con le espantabrujas, le spaventastreghe, decorazioni esoteriche che hanno lo scopo di tener lontani gli spiriti malvagi. Ne hanno incendiate parecchie qui, di streghe, per vederci meglio nei tempi bui del Medioevo. Jaca è rivale di Huesca per tante ragioni, ma soprattutto per la custodia del disputato Calice. Pare che la cattedrale sia stata eretta proprio a questo scopo. Erano tempi di cupidigia e di caudillos rapaci, come l'avido Childeberto, re merovingio di Parigi, insaziabile collezionista di coppe liturgiche, che nelle sue incursioni al di qua dei Pirenei si era appropriato di ben sessanta pissidi. Il dedalo di viuzze al cui centro s'innalza l'enigmatico edificio religioso serviva a disorientare i malintenzionati e ad appiedare i cavalieri ostili. Essa stessa tesoro architettonico, la cattedrale custodisce il resto del corpo di Santa Orosia, patrona della città. Chi dice che la ragazza fosse una principessa di Boemia, chi d'Aquitania, chi di Cordova. Ma qui i cavilli degli storici non interessano più di tanto. Nel bel mezzo di questo cammino mistico e iniziatico è semmai più utile sapere che la povera decapitata è tenuta in conto di efficace antidoto per spossessare gli indemoniati. Non tutte le reliquie hanno il privilegio di essere protette da casseforti tanto impegnative. Oltre al teschio di Orosia, l'instancabile Mosen Domingo Dueso, parroco più che sessantenne di sette villaggi disseminati tra le balze aragonesi, conserva nella chiesa parrocchiale di Yebra de Basa il piede carbonizzato di San Lorenzo: lo salvò dal falò lo stesso soldato suo compaesano che aveva messo al sicuro il Graal. Anonimo eroe conosciuto come Recaredo, anacronistico nome d'origine visigota, forse saltato fuori da un bisticcio con il termine spagnolo recadero, che vuol dire messaggero, corriere. Devono essere stati un certo numero, nei secoli di gestazione del cristianesimo e delle sue leggende, gli inviati che si sono spinti fin quassù come venditori ambulanti a smerciare reliquie di una fede importata da lontano. A convertire le rurali plebi pagane con discutibili trovate da imbonitori di paese. Basta tenersi sui contrafforti dei Pirenei o battere altre remote regioni iberiche per imbattersi nei frequenti relitti materiali di un'evangelizzazione di bocca buona. Nelle fuligginose Asturie, patria di minatori rossi e tenaci, la cattedrale di Oviedo vanta un'arca di bigiotteria mistica senza eguali, la portentosa "Camara Santa". Lì puoi trovare schegge della Croce e brandelli del Sudario, il resto dei Trenta denari di Giuda, briciole dei pani moltiplicati da Cristo, qualche ciocca della capigliatura della Maddalena, il sandalo destro di San Pietro, un pezzetto della bacchetta con cui Mosé separò le acque del Mar Rosso e molto altro ancora. Sarebbe ingenuo sorridere di tanta ingenuità. I capolavori che avvolgono duemila anni di reliquie ci hanno più che ripagato degli inevitabili danni e delle sicure beffe. Gli studiosi del Santo Graal e i suoi moderni romanzieri, Jean Markale in testa, assicurano che il Calice sia stato intagliato in uno smeraldo ritrovato da Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, tra fiori che non appassivano mai e sotto alberi che davano frutti tutto l'anno. Si era staccato dalla fronte di Lucifero, il portatore della luce, l'arcangelo ribelle, mentre precipitava agli Inferi. Paradiso e inferno, lande su cui è arduo costruire un itinerario di viaggio. La battaglia di luce e tenebre in questa scabra terra di confine che è l'Aragona qualche volta mette addosso brividi, non sempre provocati al freddo.

La mitica coppa- Per Valencia: voli quotidiani di Iberia e Alitalia da Milano Malpensa, via Barcellona: tariffe a partire da 550 mila lire (validità sette giorni). Per raggiungere direttamente l'Aragona, gli aeroporti strategici sono quelli di Saragozza e Pamplona: biglietto a partire da 399 mila lire, validità massima 14 giorni, compreso un weekend.-Il noleggio di un'auto di categoria A (media cilindrata, tipo Opel Corsa) costa circa 90 mila lire al giorno. (Inf: Squirrel, tel. 02.584.300.11). - Per dormire: il Parador de Bielsa, nel Parco Nazionale di Ordesa, è un confortevole rifugio tutto in legno, con ottimo ristorante al suo interno (camera doppia, 123 mila lire). Un'alternativa è il Parador de Alcañiz, un castello-convento del XII-XIII secolo (camera doppia, 129 mila lire). In Italia sono rappresentati da Alpitour.
Per informazioni e prenotazioni: tel. 0171.3131. - Per altre informazioni: Ufficio spagnolo del turismo, via Broletto 30, 20121 Milano tel. 02.720.046.17, fax 02.720.043.18.

Fonte - D La Repubblica delle Donne, 21 Dicembre 1999

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